Con il termine mentalizzazione ci si riferisce all’attività di comprensione del comportamento in relazione a stati mentali come pensieri e sentimenti. Mentalizziamo tutte le volte che siamo consapevoli degli stati mentali in noi stessi e negli altri, come per esempio quando pensiamo ai sentimenti. Alcune definizioni pratiche di mentalizzazione possono essere le seguenti: tenere a mente la mente; considerare gli stati mentali propri e degli altri; comprendere i fraintendimenti; vedere se stessi dall’esterno e gli altri dall’interno; attribuire una qualità mentale alle cose o sviluppare una prospettiva mentale. La mentalizzazione è un’attività mentale prevalentemente preconscia (automatica), immaginativa (intuitiva), emozionale (non cognitiva), e aiuta a regolare le emozioni. La mentalizzazione è un costrutto complesso, che include tutto ciò che va da fenomeni come i bisogni, i desideri, i sentimenti, i pensieri, le credenze, le fantasie, i sogni ai processi psicopatologici. La mentalizzazione può essere esplicita o implicita. La mentalizzazione esplicita è simbolica e ha luogo quando ad esempio si esprimono i sentimenti in parole o si dipinge un quadro per rappresentare uno stato mentale. Nelle condizioni migliori, la mentalizzazione esplicita è caratterizzata da una combinazione di precisione, ricchezza e flessibilità. L’attaccamento sicuro è la fonte dell’esplicitazione degli stai mentali. La mentalizzazione implicita è automatica e intuitiva, non riflessiva. È un correlato fenomenologico e comportamentale di conoscenze ottenute tramite l’apprendimento implicito e che implica sentimenti, giudizi, o persone che hanno intuizioni verso altri target sociali o situazioni che sono spesso vissute in assenza di una ragione ben articolata. L’apprendimento implicito è basato sull’esposizione ripetuta a pattern di stimoli associati a ricompense; ha luogo senza consapevolezza e senza conoscenza esplicita di ciò che si è imparato, ne tanto meno come lo si è imparato. L’intuizione, fondata sull’apprendimento implicito è alla base della nostra capacità di rispondere in modo appropriato alla comunicazione emotiva non verbale, e gran parte di questa responsività si verifica anche al di fuori della consapevolezza esplicita. La differenza tra mentalizzazione esplicita e implicita può essere meglio colta attraverso il parallelismo con la distinzione tra memoria dichiarativa (esplicita) e memoria procedurale (implicita), vale a dire la differenza tra “sapere qualcosa” e “sapere come”. Mentalizzare implicitamente è un know-how procedurale; mentalizzare esplicitamente è ciò che può essere espresso in forma simbolica. La mentalizzazione può essere rivolta verso sé o verso gli altri e in terapia si lavora per cercare di svilupparne entrambi le direzioni. È un’attività che, contro intuitivamente, necessita di guardare verso l’esterno per conoscere la propria mente, mentre per conoscere la mente dell’altro richiede di guardare nel proprio interno. Ancora, la mentalizzazione può essere diretta verso gli stati mentali attuali (presente) ma anche passati e futuri: “(…) i pazienti possono trarre beneficio dal riflettere sui propri stati mentali che li hanno portati impulsivamente a comportamenti autodistruttivi o sugli stati mentali di entrambe le parti di un’interazione che ha portato a una lite. In psicoterapia chiamiamo questo processo “riavvolgi ed esplora”, cioè tornare al punto in cui la mentalizzazione è andata perduta. (…) il valore di tale riflessione è quello di trasformare il senno di poi in prospettiva, cioè di imparare dal passato, in modo da diventare più abili in futuro a mentalizzare rispetto agli stati mentali attuali in se stessi e negli altri. Inoltre, siamo in grado di mentalizzare in relazione al futuro, cercando di anticipare, per esempio, come il coniuge può rispondere a una proposta di separazione. Mentalizziamo in relazione al futuro per anticipare i nostri stati mentali (…), nonostante la nostra capacità di farlo con accuratezza sia più limitata di quello che generalmente pensiamo specialmente quando, trovandoci in uno stato relativamente calmo, cerchiamo di prevedere come risponderemo in uno stato emozionale” (Allen, Fonagy, Bateman, 2010, pp. 37-38). Nel processo terapeutico, è di fondamentale importanza favorire la mentalizzazione delle emozioni. Mentalizzare le emozioni non significa assumere una posizione distaccata, intellettuale sulla propria emozione, ma raggiungere chiarezza circa l’esperienza emotiva. La mentalizzazione non è dunque solo pensare con chiarezza, ma anche (e soprattutto) sentire con chiarezza. La mentalizzazione dell’emozione, definita da Fonagy e collaboratori “affettività mentalizzata”, è composta da tre livelli: l’identificazione, la modulazione e l’espressione delle emozioni. Con il termine identificazione ci si riferisce alla capacità di nominare le emozioni di base, di identificarne le sfumature e di chiarirne il significato in termini di relazioni passate e presenti. Trovare il significato delle proprie emozioni è un processo che implica l’elaborazione delle ragioni per le emozioni nell’esperienza attuale così come la comprensione dello sviluppo storico delle risposte emotive in un determinato rapporto e in associazione alle relazioni precedenti. Molto spesso, la comprensione della base storica delle risposte emotive è utile per scoprire il significato di risposte ragionevolmente intense, come solitamente accade quando è associato a un trauma. L’identificazione delle emozioni rende possibile l’auto-conoscenza, poiché sapere ciò che si sente è parte della conoscenza di sé e facilita la comunicazione. Sapere cosa si prova permette di condividere (oppure no) quell’informazione con gli altri. Condividere un’informazione aiuta a costruire e sostenere la fiducia nelle relazioni. Se tali relazioni di fiducia sono presenti, identificare le emozioni può favorire una maggiore precisione e ricchezza di dettagli. Se invece non ci sono, la psicoterapia può essere pensata come uno spazio in cui esercitarsi, all’interno del quale il paziente può fare esperienza di essere capito e coltivare una migliore comprensione dei propri stati mentali. Modulare le emozioni implica la capacità di regolare l’intensità degli stati emotivi sia verso il basso sia verso l’alto, nonché il riconsiderare le emozioni in un processo di rivalutazione continua. La rivalutazione “(…) è un momento cruciale nel processo di affettività, in quanto mette in evidenza che non si devono necessariamente adottare nuovi affetti quando si reinterpreta il significato del medesimo affetto. Così attraverso la rivalutazione degli affetti si arriva ad avere un maggior senso della complessità della propria esperienza affettiva” (Fonagy, Gergely, Jurist, Target, 2005, p. 340). Il processo di rivalutazione richiede un atteggiamento esplorativo e curioso rispetto agli stati mentali e la loro base, nonché la loro influenza su di sé e nelle relazioni. La modulazione comporta l’essere responsivi, il fare aggiustamenti e il compiere uno sforzo per unire e armonizzare aspetti importanti del processo di assegnazione e riassegnazione di valore delle emozioni. L’espressione delle emozioni, in fine, si fonda sulla loro identificazione e modulazione, e può essere rivolta all’esterno verso gli altri ma anche all’interno verso se stessi. Esprimere le emozioni nelle relazioni di attaccamento svolge un ruolo significativo anche nelle successive identificazioni e modulazioni. Mentalizzare l’affettività non implica una sequenza obbligata di identificazione, modulazione ed espressione dell’emozione, bensì un continuo passaggio tra le tre componenti. La capacità di mentalizzazione è strettamente connessa alla qualità dell’attaccamento. L’attaccamento sicuro costituisce un clima favorevole alle interazioni mentalizzanti, mentre la responsività contingente della mentalizzazione incide sulla regolazione affettiva che cementa il legame emotivo sicuro. V’è dunque una complessa interazione evolutiva tra mentalizzazione genitoriale del bambino, attaccamento sicuro e successivo sviluppo del bambino della capacità di mentalizzare. Come facilmente intuibile, se le relazioni di attaccamento sicuro sono il terreno fertile per una mentalizzazione ottimale, i deficit o i traumi nelle relazioni di attaccamento hanno un’influenza antagonista sulla capacità di mentalizzazione. L’attaccamento che più compromette la capacità di mentalizzazione è l’“attaccamento traumatico”. Con “attaccamento traumatico” ci si riferisce sia al trauma subito nella relazione di attaccamento, sia al concomitante indebolimento delle capacità di attaccamento sicuro correlate. Comportamenti abusanti ed emotivamente negligenti denotano l’assenza di empatia nel caregiver, una “cecità mentale”, e sono generatori della forma più profonda di attaccamento insicuro, cioè l’attaccamento disorganizzato. L’attaccamento sicuro non contempla dunque solo la presenza di comportamenti che promuovono la mentalizzazione, ma anche l’assenza di comportamenti che minano la mentalizzazione: “(…) mentalizzazione genera mentalizzazione e, viceversa, non mentalizzazione genera non mentalizzazione” (Allen, Fonagy, Bateman, 2010, p. 117). Anche la capacità di regolare le proprie emozioni è un apprendimento che avviene fin da neonati attraverso i processi di co-regolazione emotiva con i caregivers. Un attaccamento sicuro porta allo sviluppo di una forma sana e flessibile di regolazione emotiva, un legame insicuro a stili di regolazione non ottimali, mentre la disorganizzazione dell’attaccamento conduce a forme di regolazioni imprevedibili e meno efficaci. Nella pratica clinica capita spesso di incontrare pazienti che presentano difficoltà a mentalizzare circa le proprie e altrui emozioni e i propri e altrui stati mentali. Il mondo interno di questi pazienti è solitamente dominato da quelle che Jurist ha definito emozioni aporetiche, ossia emozioni vaghe e prive di una caratterizzazione netta: “(…) Le emozioni aporetiche si manifestano quando sappiamo di star sentendo qualcosa ma non siamo certi di cosa sia, e quando la comprensione di simili sentimenti appare priva di direzione o bloccata. (…) Il termine aporetico significa letteralmente ‘a = senza’ e ‘poros = accesso’, ed è stato coniato per indicare l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema” (Jurist, 2018, p. 26). Aiutare i pazienti a prendere confidenza con la mentalizzazione non comporta solo permettergli di riconoscere i propri stati mentali, i propri affetti e di esprimere e modulare in modo più ottimale le proprie emozioni, ma ha anche di fornire loro un’esperienza più ricca del mondo. Secondo Bandler e Grinder la sofferenza psicologica è strettamente connessa al modello del mondo che ogni persona costruisce attraverso le proprie esperienze: “(…) Ogni essere umano ha una serie di esperienze che ne costituiscono la storia personale e che sono unicamente sue, allo stesso modo delle sue impronte digitali. Così come ha una propria serie di impronte digitali distinte, ogni individuo ha esperienze originali di crescita e di vita, e non vi saranno mai due storie di vita identiche. (…) I modelli e le mappe che creiamo nel corso della vita si basano sulle nostre esperienze individuali, e poiché taluni aspetti saranno unici per noi in quanto persona, talune parti del nostro modello del mondo saranno esclusivamente peculiari di ciascuno di noi. Questi singoli modi con i quali ciascuno di noi rappresenta il mondo costruiranno un insieme di interessi, abitudini, simpatie, antipatie e regole di comportamento che saranno decisamente nostri. (…) [Le] differenze dei nostri modelli possono essere sia tali da modificare le prescrizioni che riceviamo (dalla società) in modo da arricchire la nostra esperienza e offrirci più scelte, sia tali da impoverire la nostra esperienza in modo da limitare la nostra capacità di agire con efficacia” (Bandler, Grinder, 1981, pp. 30-31). Più il modello del mondo è superficiale e scarno, più si corre il rischio che una persona sviluppi una sofferenza emotiva-psicologica. In particolare, nel processo di costruzione del modello possono verificarsi tre tipologie di errori rilevabili dalle narrazioni dei pazienti: cancellazioni, generalizzazioni e deformazioni. La cancellazione è un procedimento che rimuove alcune parti dell’esperienza originaria. Nelle cancellazioni il paziente presenta un modello del proprio mondo impoverito, manchevole di elementi dell’esperienza: ad esempio potrebbe affermare di essere spaventato, senza specificare da chi o da che cosa. La generalizzazione è un procedimento con il quale elementi o parti di un modello di una persona vengono staccati dalla loro esperienza originaria e giungono a rappresentare l’intera categoria di cui l’esperienza è un esempio: ad esempio, l’essere rifiutati da una donna in particolare viene trasformato nel vissuto di non piacere alle donne in generale. Nelle deformazioni, in fine, un processo nel quale la persona ha un ruolo attivo viene trasformato in un evento, cioè in qualcosa al di fuori della propria agency: “Uno dei modi in cui ci si immobilizza è la conversione di un processo in corso in un evento. Gli eventi sono cose che capitano in un certo punto del tempo e sono finiti. Quando avvengono, i loro risultati sono fissati e non si può fare più nulla per cambiarli. Questa maniera di rappresentare la propria esperienza impoverisce, nel senso che i clienti perdono il controllo dei processi in corso rappresentandoli come eventi” (Bandler, Grinder, 1981, p. 62). Quando le narrazioni dei pazienti sono ricche di cancellazioni, generalizzazioni e deformazioni, quando cioè i pazienti presentano un modello del proprio mondo estremamente impoverito, il lavoro sulla mentalizzazione può contribuire a renderlo più differenziato e ricco di dettagli. Lascia una Risposta. |
AutoreGiorgio Franzosi è psicologo psicoterapeuta e terapeuta EMDR. Da diversi anni aiuta a ritrovare il proprio benessere psicofisico nel più breve tempo possibile. Lavora a Crema (CR) e Online. Categorie
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