L’essenza della metafora è comprendere e vivere un tipo di cosa nei termini di un’altra. Il nostro linguaggio e la nostra conoscenza del mondo non sono di natura letterale, ma metaforica (Giuliani, 2017). I lavori portati avanti per più di un decennio da George Lakoff e Marc Johnson (1980, 1998, 1999) sul linguaggio metaforico si basano sull’ipotesi che la conoscenza del mondo astratto (idee, eventi, emozioni) e l’immagine che ne costruiamo derivino dalla nostra esperienza del mondo fisico. Per tale motivo la cognizione della realtà è fondamentalmente metaforica: conosciamo il mondo astratto attraverso i concetti con cui abbiamo imparato a conoscere la realtà di cui abbiamo esperienza sensoriale (Giuliani, 2017). Quando per esempio diciamo che abbiamo avuto una giornata di lavoro “pesante”, o che l’ascolto di una canzone ci ha fatto sentire “leggeri”, o che il discorso di un politico ci è sembrato “vuoto”, stiamo attribuendo a cose astratte (lavoro, musica, discorsi) qualità che esperiamo dal mondo sensoriale.
Senza le esperienze del mondo sensibile difficilmente riusciremmo a tradurre in linguaggio quello che abbiamo provato: “(...) in che modo si può dire diversamente che ho avuto una giornata “pesante”? Con quali parole differenti, che non abbiano a che fare con l’esperienza della fatica, del contrasto, dello sforzo fisico, potremmo dire la stessa cosa? Insomma: in che termini non metaforici potremmo raccontare una giornata di lavoro che ci ha messo (e “mettere” è un verbo di moto) a dura prova (ancora: “dura”, una parola tattile) o che ci ha costretto (costringere è stringere insieme) ad affrontare (attaccare di fronte) impegni difficili?” (Giuliani, 2017, pp. 35- 36).
Quello che mi preme qui attenzionare è la ricorsività che v’è tra mente e corpo, e in particolare la tesi secondo cui il pensiero è influenzato dall’esperienza corporea, tanto che potremmo affermare, seguendo Lakoff e Johnson (1980, 1999), che pensiamo (anche) col corpo e quindi che la mente è incorporata ("embodied Mind"). Nelle “metafore di orientamento” (Lakoff, Johnson 1980), per esempio, ci appoggiamo ai modi in cui, fisicamente, sperimentiamo il basso e l’alto. Se sperimentiamo uno stato d’animo positivo diciamo di essere “su”, se siamo tristi o “depressi” (che vuol dire “schiacciati in basso”) siamo “giù”. Se ci soffermiamo ad osservare il corpo, possiamo notare come la postura di una persona triste sia orientata verso il basso, mentre come una persona serena cammini a testa alta. Quando siamo in salute diciamo di essere “all’apice” della forma, mentre quando ci ammaliamo diciamo di essere “caduti in malattia”. Anche la concettualizzazione del tempo è un esempio formidabile di come applichiamo l’esperienza fisica per capire e organizzare il mondo. Quando affermiamo che “il tempo passa” stiamo facendo ricorso a una metafora di moto: “passare” equivale a spostarsi nello spazio. “(...) Descriviamo il tempo in questo modo perché abbiamo braccia e gambe e un corpo che ci consente di muoverci nello spazio, che si lascia dietro le cose viste poco prima e che vede avanti quelle che devono ancora venire, grazie a due occhi incassati sulla parete frontale del cranio. Il cranio, poi, ha la facoltà di ruotare per un certo numero di gradi su un perno, e così facendo ci permette di osservare il moto di un oggetto da un punto all’altro del nostro orizzonte. Distribuiamo gli eventi lungo una linea come fossero oggetti in movimento nello spazio perché questa è l’esperienza del nostro corpo, e a quella linea diamo il nome di tempo” (Giuliani, 2017, p. 45). Alcuni dei sintomi che i pazienti portano in terapia sono espressi attraverso il corpo come metafora di pensieri e vissuti non consapevoli, oppure non dichiarati o non dichiarabili (gli attacchi di panico, ad esempio, rientrano in questa tipologia di problemi; mi capita spesso di domandare a questi pazienti cosa direbbe il loro attacco di panico se potesse parlare, ottenendo il più delle volte risposte rivelatrici). Con questi pazienti trovo terapeutico restituire loro il senso di quello che gli sta accadendo traducendo il sintomo – cioè “(...) il modo metaforico [che il paziente ha trovato] per riportare sulla scena un fatto che ha bisogno di elaborazione, ma che non si può dire” (Giuliani, 2017, p. 129) – nella metafora linguistica di quell’esperienza non ancora elaborata o indicibile. Cerco di spiegarmi meglio con alcuni esempi. Massimo Giuliani (2017) racconta di un ragazzino dodicenne inviatogli con la famiglia dalla Neuropsichiatria Infantile poiché, a seguito di una slogatura alla caviglia priva di complicazioni organiche, non ha più voluto saperne di camminare, protestando che le gambe non lo sostengono e che non è in grado si stare in piedi. Durante la seduta emergono le ansie dei genitori rispetto ad alcune decisioni lavorative dalle conseguenze importanti che il padre dovrebbe prendere e che allontano sempre più la moglie. Alla fine dell’incontro, il terapeuta decide di chiudere la seduta introducendo una metafora: “(...) Senti, Gianluca, devo dirti una cosa. (...) Sono impressionato dal fatto che alla tua età hai l’intelligenza per parlare come un uomo adulto! Davvero. Sono ancora più impressionato perché quando sei entrato ti portava in braccio il papà... ed eri lì tutto rannicchiato e sembravi un bambino ancora più piccolo della tua età. Poi ti ha lasciato su quella sedia e ho visto che eri più grande di come mi sei sembrato all’inizio. E poi ancora ti sento parlare e trovo che sei ancora più grande, sei uno con le idee chiare, uno che sa cosa dovrebbe fare la mamma, che parla della sua ansia come una persona competente... Davvero, non mi capita spesso. Parli davvero come un adulto, hai preoccupazioni da adulto. Penso che hai anche attenzioni da adulto. Penso che davvero hai preso a cuore le ansie della mamma e vorresti che le passassero. Credo che anche il tuo papà apprezzi molto quello che stai facendo: credo che tu senta che quando fai qualcosa per l’ansia della mamma, sta meglio anche lui. Così penso che mentre curi la mamma ti prendi cura di tutt’e due, anche del papà. Anche per lui è stato importante fino ad ora che tu facessi tutto questo. Solo, sai cosa mi viene in mente? (...) mi fai pensare a una specie di gigante dai piedi d’argilla... Capisci cosa intendo? Come un corpo da gigante su due piedi fragili. Un adulto sui piedi di un bambino, insomma, no? E così quei piedi non ce l’hanno fatta a reggere quel peso, e alla fine il gigante si è fermato. Non ce l’ha fatta più, i suoi piedi hanno ceduto” (Giuliani, 2017, pp. 93-94); (la restituzione si conclude con un patto tra il terapeuta e il ragazzino, in cui quest’ultimo acconsente di lasciare che sia il terapeuta a occuparsi dei genitori, mentre lui tornerà a fare le cose che fanno i ragazzi della sua età). In un altro esempio, lo stesso autore, durante una terapia familiare introduce la metafora del “grattacapo” per restituire senso all’esperienza di un bambino di quattro anni che si grattava la testa fino a farla sanguinare: “Dire a due genitori afflitti che il loro bambino di quattro anni si gratta la testa fino a sanguinare: ‘chissà che grattacapi ha questo bambino...’ in molti (...) contesti passerebbe come una violazione di qualche regola di conversazione (...) o connetterebbe come insensibile o folle chi lo dicesse. In seduta, invece, può creare una discontinuità nella conversazione che permette di passare dalla descrizione fattuale di un sintomo all’approfondimento di questioni emotive rilevanti, dal linguaggio patologizzante a quello delle relazioni. (...) Il ‘grattacapo’ (che nel linguaggio comune sta per lo stato d’animo di chi abbia una preoccupazione persistente: la parola viene dal gesto tipico di chi si tormenta per una questione da risolvere) perde la valenza metaforica per piombare nel linguaggio letterale a indicare il sintomo del bambino: per poi, con un testacoda logico, tornare nel dominio metaforico dove indica un’ansia difficilmente consolabile” (Giuliani, 2017, pp. 23-24). Milton Erickson è forse il terapeuta divenuto più celebre per la sua capacità di utilizzare la metafora a scopi terapeutici. Nel libro La mia voce ti accompagnerà (1983) curato dall’allievo Sidney Rosen, Erickson racconta di una paziente che si era rivolta a lui per curare una severa psoriasi. Dopo averla visitata, Erickson le disse: “(...) Lei non ha più di un terzo della psoriasi che pensa di avere. (...) Lei ha molte emozioni. Lei ha poca psoriasi e molte emozioni. Lei è viva, ha delle emozioni: poca psoriasi e molte emozioni. E molte emozioni sulle braccia, sul corpo, e lei le chiama ‘psoriasi’. Cosicché lei non può averne più di un terzo di quanto creda di averne” (pp. 121-122). In terapia, l’uso della metafora è vantaggioso rispetto all’uso del linguaggio letterale perché aiuta a restituire senso all’esperienza della persona, lasciando però che sia quest’ultima a cercare e ad attribuirvi i significati a lei utili. Questo processo di ricerca e di attribuzione di significato è stato definito da Gordon (1992) “ricerca transderivazionale”: la metafora obbliga gli ascoltatori a trarre e usare le loro personali interpretazioni di ciò che sta accadendo realmente. “Poiché la metafora è destinata al cliente, il modo giusto di interpretarla non può essere che il suo. Come un sarto, il terapeuta deve scegliere la stoffa e confezionare il vestito su misura. Ma nel suo caso è l’acquirente che apporta le modifiche perché il vestito gli si adatti perfettamente” (p. 52). La Teoria del Codice Multiplo
Esiste una interessante teoria afferente al paradigma psicosomatico, chiamata Teoria del Codice Multiplo, che aiuta a meglio comprendere come il corpo possa divenire veicolo di un messaggio metaforico attraverso un sintomo.
La Teoria del Codice Multiplo prevede la coesistenza di tre sistemi tra loro interconnessi: il sistema subsimbolico, il sistema non verbale simbolico (NV-S) e il sistema verbale simbolico (V- S). Il sistema subsimbolico:
Il sistema non verbale simbolico:
Il sistema verbale simbolico:
Il funzionamento del sistema subsimbolico corrisponde a quello di ciò che viene comunemente chiamato corpo. Non un corpo solo biologico, come quello costruito dalla medicina, bensì “(...) un corpo che si costruisce come un precipitato di relazioni, esattamente come ciò che siamo soliti chiamare mente, e i cui movimenti non sono direzionati solo all’interno del soggetto, ma mostrano anche una componente relazionale, esattamente come i movimenti mentali, che comprende la memoria implicita, che a volte chiamiamo memoria del corpo. Il sistema subsimbolico è mente e corpo, a seconda appunto del vertice da cui lo guardiamo, se con il microscopio, con la risonanza magnetica, con l’elettrodo, o invece dal punto di vista di cosa comunica, o cerca di comunicare, al soggetto che gli sta accanto. Un corpo che sente, risponde, soffre, gioisce, prova orgasmi. Un corpo molto mentale, una materia che assomiglia sempre di più a un pensiero e che (...) corrisponde anche a quello che in genere viene chiamato inconscio” (Solano, 2013, pp. 34-35). Analogamente, i sistemi simbolici sono anche corpo, poiché fondano il loro funzionamento su strutture nervose come la corteccia cerebrale e l’ippocampo. Entro questa cornice è possibile quindi ridefinire il rapporto mente/corpo come il rapporto tra i sistemi simbolici e il sistema subsimbolico. I tre sistemi, in condizione ottimale di salute, presentano forti connessioni. Le connessioni permettono all’emozione subsimbolica di trovare una rappresentazione in immagini e parole e quindi di essere elaborata, regolata, modulata. Il sistema verbale permette di riflettere sull’esperienza. Al contrario, la disconnessione tra i sistemi è indice di patologia. In particolare, la disconnessione del sistema subsimbolico con gli altri due sistemi simbolici non permette di trasformare l’esperienza corporea in qualche tipo di simbolo, e per tanto rimane tale: “(...) [i] problemi inerenti alla relazione dell’individuo col suo mondo, non trovando uno spazio adeguato di elaborazione mentale (simbolica), troveranno espressione soltanto al livello del corpo (del sistema subsimbolico)” (Solano, 2013, pp. 43-44). Nel modello della Teoria del Codice Multiplo, dunque, l’espressione di un disagio attraverso il corpo (il sistema subsimbolico) sta a indicare che in quel momento il soggetto non è in grado di esprimerlo in altro modo. Il corpo produce il sintomo che si fa metafora del disagio indichiarabile. L'elaborazione dell’esperienza somatica (il sintomo) attraverso l'integrazione di fatti, pensieri ed emozioni all’interno di una narrazione, consente di avviare il processo di guarigione e di liberazione dal sintomo. Bibliografia
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AutoreGiorgio Franzosi è psicologo psicoterapeuta e terapeuta EMDR. Da diversi anni aiuta a ritrovare il proprio benessere psicofisico nel più breve tempo possibile. Lavora a Crema (CR) e Online. Categorie
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