Quello che segue è un frammento del testo Mente e Natura di Gregory Bateson. Ogni scolaretto sa che... Ogni esperienza è soggettiva. (...) è il nostro cervello a costruire le immagini che noi crediamo di 'percepire'. E' significativo che ogni percezione - ogni percezione conscia - abbia le caratteristiche di un'immagine. Un dolore è localizzato in una parte del corpo: ha un inizio, una fine e una collocazione, e si evidenzia su uno sfondo indifferenziato. Queste sono le componenti elementari di un'immagine.
Quando qualcuno mi pesta un piede, ciò che sperimento non è il suo pestarmi un piede, ma l'"immagine" che io mi faccio del suo pestarmi il piede, ricostruita sulla base di segnali neurali che raggiungono il mio cervello in un momento successivo al contatto del suo piede col mio. L'esperienza del mondo esterno è sempre mediata da specifici organi di senso e da specifici canali neurali. In questa misura, gli oggetti sono mie creazioni e l'esperienza che ho di essi è soggettiva, non oggettiva. Tuttavia, non è banale osservare che pochissimi, almeno nella cultura occidentale, dubitano dell'oggettività di dati sensoriali come il dolore o delle proprie immagini visive del mondo esterno. La nostra civiltà è profondamente basata su questa illusione.
(...)Tutti, ovviamente, sappiamo che le immagini che 'vediamo' sono in realtà fabbricate dal cervello o dalla mente; ma saperlo con l'intelletto è molto diverso dal rendersi conto che è davvero così. Questo aspetto della faccenda si impose con forza alla mia attenzione una trentina di anni fa a New York, in occasione di una dimostrazione pubblica data da Adalbert Ames Junior di certi esperimenti su come conferiamo profondità alle nostre immagini visive. Ames era un oculista che aveva lavorato su pazienti affetti da anisoconia, i cui occhi cioè formavano immagini di grandezza diversa. Ciò lo aveva portato a studiare le componenti soggettive della percezione della profondità. Poiché‚ questo argomento è importante e costituisce la base stessa dell'epistemologia empirica o sperimentale, mi soffermerò un poco a descrivere il mio incontro con gli esperimenti di Ames. Ames li aveva allestiti in un grande appartamento vuoto nel centro di New York. Ricordo che ce n'erano una cinquantina. Quando arrivai, non c'erano altri visitatori. Ames mi accolse e mi propose di cominciare dalla prima dimostrazione della serie mentre lui continuava a lavorare ancora un po' in una stanzetta che fungeva da ufficio. Il resto dell'appartamento, a parte due sedie a sdraio pieghevoli, non conteneva alcun mobile. Passai da un esperimento all'altro: ciascuno comprendeva un qualche tipo di illusione ottica sulla percezione della profondità. La tesi di tutta la dimostrazione era che noi usiamo cinque indizi principali per arrivare a creare l'apparenza della profondità nelle immagini che formiamo quando attraverso gli occhi guardiamo il mondo esterno. Il primo di questi indizi sono le dimensioni, cioè le dimensioni dell'immagine fisica sulla retina. Naturalmente non possiamo "vedere" quest'immagine, sicché sarebbe più esatto dire che il primo indizio per stabilire la distanza è l'angolo che l'oggetto sottende nell'occhio. Ma di fatto neppure quest'angolo è visibile. L'indizio della distanza registrato sul nervo ottico è forse la "variazione dell'angolo sotteso". Per dimostrare questa verità vi erano due palloncini posti in un ambiente buio, illuminati allo stesso modo, ma collegati in modo da poter trasferire l'aria dall'uno all'altro. I palloncini non si muovevano, ma quando uno si gonfiava e l'altro si sgonfiava l'osservatore aveva l'impressione che quello che si gonfiava s'avvicinasse e l'altro s'allontanasse. Col passaggio alterno dell'aria dall'uno all'altro, sembrava che i palloncini si muovessero alternativamente avanti e indietro. Il secondo indizio era il contrasto di luminosità. Per dimostrarlo, i palloncini conservavano le stesse dimensioni e naturalmente non venivano affatto mossi. Cambiava solo l'illuminazione, che era più intensa ora sull'uno ora sull'altro. Quest'alternanza di illuminazione, come l'alternanza delle dimensioni, dava l'impressione che i palloncini si allontanassero a turno, secondo che la luce cadeva ora sull'uno e ora sull'altro. Gli esperimenti successivi mostravano come questi due indizi, dimensioni e luminosità, potevano essere usati insieme e in opposizione tra di loro per dar luogo a una contraddizione. Il palloncino che si sgonfiava riceveva ora più luce dell'altro: questo esperimento composito introduceva l'idea che certi indizi sono dominanti rispetto ad altri. La successione complessiva degli indizi così dimostrati comprendeva le dimensioni, la luminosità, la sovrapposizione, la parallasse binoculare e la parallasse prodotta dai movimenti del capo. La più potente tra esse era la parallasse generata dal moto del capo. Dopo aver osservato venti o trenta di queste dimostrazioni, ero pronto per una breve pausa e andai a sedermi su una delle sedie a sdraio. La sedia mi rovinò sotto. Udendo il fracasso, Ames venne ad assicurarsi che tutto fosse a posto; poi restò con me e mi presentò i due esperimenti seguenti. Il primo riguardava la parallasse. Su un tavolo lungo circa un metro e mezzo c'erano due oggetti: un pacchetto di sigarette Lucky Strike, infilzato su una punta di metallo che lo teneva sollevato di qualche centimetro dal piano del tavolo, e, all'estremità opposta, una scatoletta di fiammiferi anch'essa infilzata su uno spillo. Ames mi fece mettere a un'estremità del tavolo e mi chiese di descrivere ciò che vedevo, cioè dove erano posti i due oggetti e quanto mi sembravano grandi. (Nei suoi esperimenti Ames fa sempre osservare al soggetto la verità prima di sottoporlo alle illusioni). Poi Ames mi indicò un'asse di legno posta verticalmente contro il bordo del tavolo, dalla mia parte, con un semplice foro rotondo attraverso il quale potevo guardare il tavolo per il verso della lunghezza. Mi disse di guardare attraverso il foro e di riferirgli ciò che vedevo. Naturalmente i due oggetti apparivano sempre lì dove sapevo che si trovavano, e le loro dimensioni erano quelle ben note. Guardando attraverso il foro dell'asse non avevo più una veduta panoramica del tavolo ed ero costretto a usare un occhio solo. Ames però suggerì che avrei potuto ottenere una parallasse sugli oggetti facendo scorrere l'asse lateralmente. Mentre spostavo l'occhio di lato seguendo l'asse, come per incanto l'immagine cambiò del tutto. Il pacchetto di Lucky Strike era finito d'un tratto all'estremità opposta del tavolo e sembrava alto e largo il doppio di un pacchetto normale. Anche la superficie della carta di cui era fatto aveva cambiato grana, e le sue minuscole irregolarità apparivano adesso più grandi. La scatoletta di fiammiferi, invece, aveva assunto all'improvviso dimensioni lillipuziane e pareva situata a metà del tavolo, nella posizione in cui prima si vedeva il pacchetto di sigarette. Che cosa era accaduto? La risposta era semplice: sotto il tavolo, invisibili, c'erano due leve o sbarre che facevano spostare gli oggetti di lato quando io spostavo l'asse. Nella parallasse normale, come tutti sanno, quando guardiamo il paesaggio da un treno in corsa, gli oggetti più vicini sembrano passare più rapidamente: le mucche presso le rotaie spariscono in un batter d'occhio. Invece le montagne sullo sfondo passano così lentamente che, rispetto alle mucche, sembrano quasi viaggiare alla stessa velocità del treno. In questo caso, le leve sotto il tavolo facevano muovere l'oggetto più vicino insieme con l'osservatore: il pacchetto di sigarette si comportava come se fosse stato lontano, la scatoletta di fiammiferi si muoveva come se fosse stata vicina. In altre parole, muovendo l'occhio e insieme l'asse, creavo un rovesciamento di ciò che appare alla vista. In tali circostanze, i processi inconsci di formazione delle immagini costruivano l'immagine corretta. L'informazione ricavata dal pacchetto di sigarette veniva letta e utilizzata per formare l'immagine di un pacchetto lontano, ma l'altezza del pacchetto sottendeva nel mio occhio sempre lo stesso angolo: perciò ora il pacchetto sembrava avere dimensioni enormi. Analogamente, la scatoletta di fiammiferi in apparenza veniva avvicinata, ma continuava a sottendere lo stesso angolo che sottendeva dalla sua posizione reale. Ciò che avevo prodotto era un'immagine in cui la scatoletta sembrava aver dimezzato la sua distanza ma dimezzato anche le sue solite dimensioni. Il meccanismo della percezione aveva prodotto l'immagine in conformità con le regole della parallasse, regole che furono espresse chiaramente per la prima volta dai pittori del Rinascimento; e l'intero processo la creazione dell'immagine incorporante le conclusioni tratte dagli indizi della parallasse, si era svolto completamente al di fuori della mia coscienza. Le regole dell'universo che crediamo di conoscere sono sepolte nel profondo dei nostri processi di percezione. L'epistemologia, al livello della storia naturale, è in gran parte inconscia e perciò altrettanto difficile da cambiare. Il secondo esperimento che Ames mi presentò illustra la difficoltà di questo cambiamento. Questo esperimento è stato chiamato "la stanza trapezoidale". Questa volta Ames mi fece esaminare uno scatolone largo un metro e mezzo, alto un metro e profondo altrettanto, di una strana forma trapezoidale: Ames mi disse di osservarlo con cura per mandar bene a mente le sue vere dimensioni. Nella parte anteriore dello scatolone c'era uno spioncino abbastanza largo per entrambi gli occhi, ma prima di iniziare l'esperimento Ames mi fece mettere un paio di occhiali prismatici che avrebbero falsato la mia visione binoculare. Avrei così avuto il presupposto soggettivo di possedere la parallasse dei due occhi, mentre in realtà non ricevevo quasi nessun indizio binoculare. Quando guardai attraverso lo spioncino, l'interno dello scatolone mi apparve perfettamente rettangolare e raffigurante una stanza con finestre rettangolari. Ovviamente le linee che rappresentavano le finestre erano in realtà tutt'altro che semplici: erano state tracciate in modo da dare l'illusione ottica di un rettangolo, contraddicendo la vera forma trapezoidale della stanza. Come sapevo dal mio esame precedente, il lato dello scatolone che avevo di fronte, guardando attraverso lo spioncino, era posto obliquamente, sicché mi era più vicino a destra e più lontano a sinistra. Ames mi diede una stecca e mi disse di infilarla nello scatolone e di toccare con la punta un foglio di carta fissato sulla parete sinistra. Ci riuscii abbastanza facilmente. Quindi Ames disse: “Lo vede un foglio uguale sulla destra? Cerchi di colpire con la stecca anche quello. Parta appoggiando la punta della stecca contro il foglio di sinistra e colpisca con forza”. Feci partire il colpo. L'estremità della stecca percorse pochi centimetri, urtò la parete di fondo della stanza e non potè proseguire. Ames mi disse: “Provi di nuovo”. Provai una cinquantina di volte almeno, finché il braccio cominciò a dolermi. Naturalmente sapevo che correzione dovevo apportare al movimento: per evitare la parete di fondo avrei dovuto tirare indietro il braccio mentre colpivo. Ma ciò che "facevo" era guidato dalla mia immagine, e io cercavo di andar contro il mio movimento spontaneo. (Se avessi chiuso gli occhi probabilmente sarei riuscito a far meglio, ma non ci provai). Non riuscii a colpire quel secondo foglio, ma è interessante notare che i miei movimenti migliorarono e verso la fine riuscivo a spostare la stecca di parecchi centimetri prima che urtasse contro il fondo. E "man mano che provavo e riprovavo migliorando la mia azione", la mia immagine cambiava e mi dava un'impressione più trapezoidale della forma della stanza. In seguito Ames mi disse che a forza di provare si imparava davvero a colpire molto facilmente il secondo foglio e insieme a vedere la stanza nella sua vera forma trapezoidale. (...) Nonostante questa bellissima serie di esperimenti, il fenomeno della formazione delle immagini rimane quasi del tutto misterioso: non sappiamo né come avviene né, in verità, a quale scopo. Siamo d'accordo che sotto il profilo dell'adattamento ha senso presentare alla coscienza soltanto le immagini, senza spreco di attività psicologica per rendere cosciente la loro formazione. Ma non esiste alcuna chiara ragione fondamentale per cui si debbano usare proprio le immagini, o anzi si debba essere "consapevoli" delle fasi dei nostri processi mentali. Il ragionamento suggerisce che la formazione delle immagini è forse un metodo vantaggioso o economico per far passare informazioni attraverso un qualche genere di "interfaccia". In particolare, quando un essere umano deve operare in un contesto tra due macchine, è vantaggioso che esse gli forniscano le loro informazioni sotto forma di immagini. (...) La nostra non-consapevolezza dei nostri processi di percezione ha alcuni interessanti effetti collaterali. Ad esempio, quando questi processi operano senza essere controllati dal materiale in entrata proveniente da un organo di senso, come nel caso del sogno o dell'allucinazione o dell'immaginazione eidetica, è talora difficile dubitare della realtà esterna di ciò che le immagini sembrano rappresentare. Per converso, è forse un bene "non" conoscere o quasi il meccanismo di creazione delle immagini percettive. Ignorando questo lavoro, siamo liberi di "credere" a ciò che ci dicono i nostri sensi. Potrebbe essere scomodo dubitare continuamente della validità dei messaggi mandati dai nostri sensi.
Trovo l’articolo interessante, non conosco quale possa essere il suo interesse ma vorrei capire se fosse interessato a parlarne e “vedere” quali illusioni producono i rispettivi punti di vista.
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Giorgio
26/11/2019 21:44:55
Buongiorno Ruggero, potrebbe spiegare meglio cosa intende? Grazie, Giorgio Franzosi
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AutoreGiorgio Franzosi è psicologo psicoterapeuta e terapeuta EMDR. Da diversi anni aiuta a ritrovare il proprio benessere psicofisico nel più breve tempo possibile. Lavora a Crema (CR) e Online. Categorie
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Luglio 2023
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15/7/2016
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